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Fotografia BW e color > Fotografia colore

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Il termine fotografia si riferisce sia alla tecnica che permette di creare immagini, su un supporto sensibile alla luce, sia ad una un'immagine ottenuta con tale tecnica, sia più generalmente ad una forma d'arte che utilizza questa tecnica.

Note storiche

La parola
fotografia ha origine da due parole greche: (phos) e (graphis). Letteralmente quindi fotografia significa scrivere (grafia) con la luce (fotos). Ebbe origine dalla convergenza dei risultati ottenuti da numerosi sperimentatori sia nel campo dell'ottica, con lo sviluppo della camera oscura, sia in quello della chimica, con lo studio delle sostanze fotosensibili. La prima camera oscura fu realizzata molto tempo prima che si trovassero dei procedimenti per fissare con mezzi chimici l'immagine ottica da essa prodotta; le sue prime applicazioni per la fotografia si ebbero con il francese , al quale viene abitualmente attribuita l'invenzione della fotografia, anche se scoperte recenti suggeriscono che alcuni tentativi ben precedenti, come quelli dell'inglese [1], potrebbero essere andati a buon fine.
Nel
1813 Niepce iniziò a studiare i possibili perfezionamenti da apportare alle tecniche litografiche e da queste ricerche sviluppò un interesse per la registrazione diretta di immagini sulla lastra litografica, senza l'intervento dell'incisore.
In collaborazione con il fratello Claude, Niepce cominciò a studiare la sensibilità alla luce del
cloruro d'argento e nel 1816 ottenne la sua prima immagine fotografica (che ritraeva un angolo della sua stanza di lavoro) utilizzando un foglio di carta sensibilizzato, probabilmente, con cloruro d'argento.
L'immagine, tuttavia, non poté essere fissata completamente, per cui Niepce fu indotto a studiare la sensibilità alla luce di numerose altre sostanze, soffermandosi sul bitume di Giudea che possiede la proprietà di divenire insolubile in olio di lavanda in seguito a esposizione alla luce.

J. N. Niepce:
Vista della camera a Le Gras, 1826. Il tempo d'esposizione di 8 ore causa l'impressione che gli edifici siano illuminati dal sole sia da destra sia da sinistra.
Il primo successo con la nuova sostanza fotosensibile risale al
1822, con la riproduzione su vetro di un'incisione che raffigurava papa Pio VII. La riproduzione andò però distrutta qualche tempo dopo e la più antica immagine oggi esistente è una di quelle che Niepce ottenne nel 1826, utilizzando una camera oscura nella quale l'obiettivo era una biconvessa, dotata di diaframma e di un rudimentale sistema di messa a fuoco. Alle immagini così ottenute Niepce diede il nome di eliografie.
Nel
1829 fondò con Louis Daguerre, già noto per il suo diorama, una società per lo sviluppo delle tecniche fotografiche. Nel 1839 il fisico François Arago descrisse all'Accademia delle Scienze di Parigi un procedimento messo a punto da Daguerre, che venne chiamato dagherrotipia; la notizia suscitò l'interesse di William Fox Talbot, che dal 1835 sperimentava un procedimento fotografico denominato , e di John Herschel, il quale sperimentava un procedimento su carta sensibilizzata con sali d'argento, utilizzando un fissaggio a base di tiosolfato sodico.
In questo stesso periodo, a Parigi,
Hippolyte Bayard ideò un procedimento originale che faceva uso di un negativo su carta sensibilizzata con ioduro d'argento, dal quale si otteneva successivamente una copia positiva. Bayard fu però invitato, per evitare una concorrenza diretta con Daguerre, a desistere dalla continuazione degli esperimenti.
Lo sviluppo della
dagherrotipia fu favorito anche dalla costruzione di apparecchi speciali muniti di un obiettivo a menisco messo a punto nel 1829 da Charles Chevalier. Tra il 1840 e il 1870 circa si ebbero numerosi perfezionamenti dei processi e dei materiali fotografici:
nel
1841 Francois Antoine Claudet diede nuovo impulso alla ritrattistica introducendo lastre per dagherrotipia a base di cloruro e ioduro d'argento, che consentivano pose di pochi secondi;
nel
1851 ideò il procedimento al collodio che si diffuse al posto della dagherrotipia e della calotipia.
Tra il 1851 e il
1852 vennero introdotte l' ambrotipia e la ferrotipia, procedimenti con cui si ottenevano dei positivi apparenti incollando un negativo su lastra di vetro sopra un supporto di carta o panno neri oppure di metallo brunito;
nel
1857 comparve il primo ingranditore a luce solare a opera di J. J. Woodward;
nel
1859 R. Bunsen e H. E. Roscoe realizzarono le prime istantanee con lampo al magnesio. Le prime immagini a colori per sintesi additiva si devono a J. C. Maxwell (1861), mentre Louis Ducos du Hauron ottenne le prime immagini a colori mediante sintesi sottrattiva (1869) e R. L. Maddox introdusse un'importante innovazione: le lastre con gelatina animale come legante.
Infine, nel 1873 H. Vogel scoprì il principio della sensibilizzazione cromatica e realizzò le prime lastre ortocromatiche.

Tecnica

Perfezionamento di tecnologie e materiali

Museo nazionale Alinari della fotografia, a Firenze
Ma gli sforzi furono anche indirizzati al perfezionamento dei materiali sensibili, dei procedimenti di sviluppo e degli strumenti ottici. Tra le innovazioni più importanti si ricordano: l'introduzione degli apparecchi fotografici portatili (1880); l'introduzione delle
pellicole in rullo, realizzate per la prima volta da G. Eastman inizialmente con supporto in carta (1888) e successivamente con supporto in celluloide (1891).
Nel
1890 F. Hurter e V. C. Driffield iniziarono lo studio sistematico della sensibilità alla luce delle emulsioni, dando origine alla sensitometria. Un considerevole miglioramento delle prestazioni degli obiettivi si ebbe nel 1893, quando H. D. Taylor introdusse un obiettivo anastigmatico (tripletto di Cooke) con sole tre lenti non collate; tale obiettivo fu perfezionato da P. Rudolph nel 1902 con l'introduzione di un elemento posteriore collato e venne prodotto l'anno dopo dalla Zeiss, con il nome di tessar.
Altri progressi si ebbero con l'introduzione del sistema
reflex (1928) e degli strati antiriflesso sulle superfici esterne delle lenti (che migliorarono enormemente la trasmissione tra aria e vetro e il contrasto degli obiettivi) e con il processo Polaroid in bianco e nero (che permetteva di ottenere in pochi secondi una copia positiva, utilizzando un apparecchio e una pellicola speciali), introdotto nel 1948 da E. H. Land e successivamente esteso al colore.
Negli anni Sessanta con gli esposimetri incorporati nelle macchine fotografiche ebbe inizio l'epoca degli automatismi: l'evoluzione tecnologica in tale campo fu tale che alla fine degli anni Ottanta, con la miniaturizzazione dei circuiti elettronici, la messa a fuoco e l'esposizione diventano completamente automatiche; inoltre micromotori provvedono al caricamento della pellicola, al suo avanzamento dopo ogni scatto, e al riavvolgimento nel caricatore al termine dell'uso .
Negli anni Ottanta entrarono in produzione macchine per la
fotografia digitale che al posto della pellicola avevano un CCD (Charge Coupled Device), lo stesso elemento sensibile delle videocamere.
Questo componente era in grado di analizzare l'intensità luminosa e il colore dei vari punti che costituiscono l'immagine e di trasformarli in segnali elettrici che venivano poi registrati su un supporto magnetico (nastro o disco) che poteva contenere alcune decine di immagini. L'immagine registrata poteva essere immediatamente rivista su un
monitor, stampata da un'apposita stampante, o spedita, via cavo o via etere, a qualsiasi distanza.
Macchine di questo tipo venivano usate soprattutto dai fotoreporter, perché permettevano l'immediata trasmissione delle foto ai giornali, che non hanno bisogno di immagini ad
alta definizione.
L'inconveniente principale della fotografia elettronica era infatti la scarsa definizione delle immagini, in confronto a quella della fotografia tradizionale. Notevole diffusione ha avuto l'elaborazione elettronica delle immagini fotografiche, che, digitalizzate da uno scanner ad alta definizione, possono essere corrette ed elaborate a piacere (eliminazione di dominanti cromatiche, modifica dei colori, cancellazione e aggiunta di parti di immagine, fino a ottenere fotomontaggi quasi perfetti). L'immagine elaborata viene poi stampata su pellicola, con la stessa definizione dell'originale.
Negli ultimi anni lo sviluppo della
fotografia digitale ha avuto implicazioni incredibili sia nella fase di ripresa delle immagini che in quella di riproduzione. Da un lato i sofisticati sistemi di esposizione, messa a fuoco, inquadratura e disponibilità immediata delle immagini in fase di ripresa e dall'altro la loro elaborazione sul computer hanno ridimensionato il lavoro di camera oscura per lo sviluppo del negativo e/o della diapositiva e per la loro stampa. Essa richiedeva lunghe ore al buio, pazienza e risorse economiche, al punto che grandi fotografi utilizzavano spesso laboratori professionali per le loro immagini. Oggi il processo è alla portata di tutti grazie alle immagini digitali che possono essere ritoccate, modificate e trasferite con il computer di casa propria, avvalendosi di programmi di editing e/o fotoritocco e modalità di archiviazione di file anziché di voluminosa carta che hanno in gran parte ridotto la domanda di pellicole e di stampa tradizionale delle foto.


Riproduzione dei colori

J. T. Seebeck
(1810) e J. F. Herschel (1840), E. Becquerel (1848), L. L. Hill (1850) e (1851) erano riusciti a ottenere delle registrazioni instabili di oggetti colorati, probabilmente per un fenomeno di interferenza all'interno dello strato sensibile. Tale fenomeno venne utilizzato da Gabriel Lippmann, in un procedimento messo a punto nel 1891, esponendo attraverso il supporto di vetro una lastra fotografica con l'emulsione a contatto con mercurio.
L'interferenza tra la radiazione incidente e quella riflessa dal mercurio, che fungeva da specchio, faceva sì che l'emulsione rimanesse impressionata a diversi livelli di profondità, la distanza fra i quali era funzione della
lunghezza d'onda della radiazione. La lastra, sviluppata e osservata per riflessione, restituiva un'immagine con i colori naturali. Il procedimento di Lippmann, sfruttato commercialmente per qualche anno, fu abbandonato per la difficoltà nella preparazione dei materiali e del loro trattamento.
Nel frattempo
James Clerk Maxwell aveva teorizzato i principi della sintesi additiva dei colori e nel 1855 aveva ottenuto i primi risultati incoraggianti, che rese pubblici nel 1861. Nel suo procedimento l'oggetto colorato veniva ripreso su tre diverse lastre attraverso tre filtri di colore blu, verde e rosso; venivano poi ricavate tre diapositive che, proiettate a registro su uno schermo mediante tre proiettori muniti degli stessi filtri usati per la ripresa, riproducevano a colori il soggetto.
Un procedimento simile, che utilizzava i colori blu, giallo e rosso, venne ideato indipendentemente, nel 1862, da
Louis Ducos du Hauron, al quale si devono anticipazioni per tutti i procedimenti utilizzati fino a oggi. Nel 1868 egli osservò che un foglio di carta, ricoperto di sottili linee adiacenti di colore blu, verde e giallo, appariva bianco se osservato per trasparenza e grigio se osservato per riflessione e brevettò un procedimento di fotografia a colori basato su questo fenomeno.
Il procedimento venne ripreso in considerazione negli ultimi anni del
secolo XIX quando furono disponibili materiali sensibili pancromatici con i quali era possibile effettuare la ripresa attraverso un reticolo di linee o di granuli di colore blu, verde e rosso; in seguito all'inversione dell'immagine in bianco e nero, il complesso immagine-reticolo osservato per trasparenza restituiva i colori originali.
Sfruttando questo principio i
fratelli Lumière realizzarono le lastre Autochrome, la cui produzione iniziò nel 1907. Materiali simili vennero prodotti in Germania (Agfacolor) e in Gran Bretagna. Nel 1908 A. K. Dorian propose di sostituire i reticoli colorati con un insieme di minuscole lenti ottenute per goffratura sul lato del supporto opposto a quello su cui era stesa l'emulsione.
Ponendo davanti all'obiettivo un filtro costituito da tre bande colorate, ciascuna lente proiettava tre immagini, che venivano sovrapposte utilizzando un proiettore che montava sull'obiettivo lo stesso filtro usato in ripresa. Su questo principio si basavano i primi materiali Kodacolor, prodotti fino al 1935.
Tutti questi procedimenti non consentivano la produzione di stampe a colori, se non con mezzi tipografici. L'unico a ottenere copie fotografiche su carta fu
E. Vallot che nel 1895 aveva ripreso un'idea di Louis Ducos du Hauron, introducendo un procedimento che però, a causa della bassa sensibilità e della scarsa stabilità dei colori, non ebbe successo commerciale. L'era della fotografia a colori moderna iniziò nel 1935 con la pellicola per diapositive Kodachrome, seguita nel 1936 dalla Agfacolor.
La prima richiedeva un trattamento speciale, perché i colori venivano aggiunti nel corso dello sviluppo. Nella seconda, invece, che è stata la capostipite delle moderne pellicole per fotografie a colori su carta, tre strati, sensibili rispettivamente al blu, al verde e al rosso, contenevano anche i coloranti, che davano origine, durante lo sviluppo, a immagini con i colori complementari (giallo, magenta e ciano).
L'immagine riacquistava i colori naturali durante lo sviluppo della copia, stampata su carta il cui strato sensibile aveva una struttura simile. Infine la Ciba, riprendendo il vecchio procedimento di sbianca dei coloranti contenuti nei vari strati dell'emulsione, realizzò il sistema
Cibachrome, per la stampa di diapositive.

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera


Uno degli aspetti più importanti da tenere in considerazione quando si utilizzano macchine fotografiche digitali è proprio la gestione del colore. Nella fotografia tradizionale, il compito di gestire correttamente questo parametro era affidato al laboratorio di stampa dove una persona specializzata (il fotolitista appunto) si occupava di intervenire e dare alla foto una cromia adeguata. Con la fotografia digitale il tutto cambia, e non poco.
Innanzitutto è fondamentale avere una conoscenza adeguata dello spettro colorimetrico del mondo che ci circonda e comprendere come la gamma dinamica dei colori che si possono rappresentare e visualizzare cambia in base ai dispositivi che utilizziamo. Una fotocamera è in grado di immagazzinare una gamma dinamica molto più elevata di quanto se ne ricavi da una stampa, così come un
monitor consumer non potrà mai garantire un gamut ampio quanto un monitor professionale utilizzato, ad esempio da un fotografo o da un laboratorio di stampa.
Capito questo concetto, è importante far rientrare nel proprio workflow la calibrazione/profilazione del monitor (da eseguirsi periodicamente ogni 1-2 mesi) che consiste nel tararlo (punto di bianco, luminosità, contrasto, ecc.) in modo da visualizzare la più ampia gamma di tonalità che esso sia in grado di fornire. Per la calibrazione si utilizza una sonda che appoggiata al video legge alcuni valori e, dopo alcuni interventi da parte nostra, crea il giusto profilo per il monitor esaminato. La calibrazione può anche effettuarsi via software (es. Paint Shop Pro X, Adobe Gamma presente in Photoshop CS2) ma tali procedure sono sconsigliate in quanto basano l’intero processo su percezioni soggettive e questo non è un buon metodo in quanto non tutti vediamo i colori allo stesso modo, quindi meglio affidare la calibrazione ad un buon colorimetro. La calibrazione va ripetuta periodicamente e con una frequenza variabile in funzione delle nostre esigenze e del nostro monitor, ottenendo sempre risultati eccellenti in termini di corrispondenza del colore tra ciò che si visualizza a video e ciò che si ottiene in stampa.Ora che abbiamo il nostro monitor calibrato e profilato, andiamo a dedicarci alla macchina fotografica. Generalmente le macchine compatte permettono di utilizzare solo il profilo colore sRGB che è uno standard ampiamente diffuso, ma che ci consente di riprodurre una gamma cromatica più ristretta rispetto al più professionale AdobeRGB98 (presente su alcune compatte di fascia elevata e su tutte le reflex digitali). Il profilo va selezionato in base all’uso che dobbiamo farne della fotografia: se essa è destinata alla stampa diretta, o alla pubblicazione sul web, è consigliabile il primo (sRGB); se dobbiamo intervenire in post produzione è auspicabile utilizzare il secondo (AdobeRGB98) che copre un più ampio spettro cromatico e quindi si presta bene al fotoritocco. Quindi ricordate di impostare la macchina fotografica sul giusto profilo colore in base all’utilizzo che farete delle vostre fotografie.

Arriviamo ora alla fase più critica dell’intero processo: la stampa.Potete decidere di stampare le foto con la vostra stampante ottenendo dei risultati professionali solo se trattasi di inkjet di ultimissima generazione con inchiostri fotografici dedicati, ma il costo è talmente elevato da giustificarne l’utilizzo solo in casi particolari. Inoltre, la durata della stampa su carta inkjet non è al momento paragonabile a quella della stampa su carta chimica. Se invece decidete di affidare le vostre foto ad un buon laboratorio di stampa, dialogateci e chiedete che profilo colore utilizzano le loro stampatrici. Questo servirà ad evitare sorprese del tipo colori troppo accesi, colori sbiaditi, colori sfalsati, ecc… Un laboratorio serio vi proporrà due alternative:
1. Vi consegnerà il profilo colore della loro stampatrice chiedendovi di allegarlo ad ogni file prima del salvataggio definitivo del file che sarà destinato alla stampa (e questo dovrete farlo con un software professionale quale Paint Shop Pro X o Adobe Photoshop CS2, andando nelle opzioni di gestione del colore);
2. Vi comunicherà un costo che dovrete sostenere per lasciare a loro la “correzione del colore” prima della stampa.
La soluzione preferibile è sicuramente la prima poiché solo voi sarete in grado di determinare i giusti colori delle vostre fotografie, però non tutti vi consentono di ottenere il profilo colore, quindi il consiglio è di provare con poche foto e nella peggiore delle ipotesi, se il laboratorio non dovesse soddisfarvi: cambiatelo!!!In Italia siamo in una fase molto particolare, spuntano laboratori di stampa come funghi, sia online che nelle città e questo è positivo perché aumentando la concorrenza c’è una corsa al ribasso per i prezzi, ma mi raccomando: esigete un buon rapporto qualità/prezzo, non accontentatevi di spendere 5-10 centesimi di euro in meno pur avendo stampe scadenti!


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